mercoledì 23 maggio 2012

Three Days Of Struggle 2012 - Day One



Nel progressivo assottigliarsi dei confini tra ciò che è mainstream e ciò che rimane ai margini, nella proliferazione di micronicchie che forniscono a ciascuno il suo, il concetto di festival perde sempre più di senso. Intendo dire: è ancora possibile andare a un evento musicale con il gusto di lasciarsi sorprendere, di ricevere sensazioni che non siano già tutte raccolte nel dosaggio consapevole e studiato degli ingredienti? Le giornate di lotta di Vittorio Veneto danno in questo senso ancora un po' di speranza perché, fondamentalmente, durante questa rassegna può succedere qualsiasi cosa. Giunto alla quinta edizione, il Three Days of Struggle ha radunato negli anni la crème della musica inclassificabile, chiamando personaggi del calibro di Ghedalia Tazartès, Burial Hex, Sissy Spacek, Giuseppe Ielasi, Renato Rinaldi, Charlemagne Palestine, solo per ricordare qualche nome. Quest'anno, edizione in grande spolvero, con l'incredibile decisione di avere come headliner i Wolf Eyes per tutte e tre le serate. Il che vuol dire che nella geografia della musica "out there" Vittorio Veneto è il posto in cui vale la pena essere.

Parto la prima sera per raggiungere la ridente cittadina alle pendici delle Dolomiti, sapendo che senza dubbio mi perderò. E così difatti accade, con memorabili giri in tondo per la zona industriale, tra spettrali capannoni e vie che richiamano le vittime dei lager, i morti sul lavoro, i martiri di qua, i martiri di là. Ci mancano solo i sepolti vivi e l'atmosfera è compiuta. Lo spazio del Codalunga è segnalato da una fila di lumini cimiteriali e la presenza abbondante di black metallers dalla lunga criniera corvina e il volto truce fanno pensare che i colombiani Inquisition abbiano richiamato nere folle adoranti da buona parte del trevigiano e del bellunese. Ma andiamo con ordine. Aprono gli Opium Child, duo elettronico che gravita attorno alla rivista supercool di arte e amenità Neromagazine. Elettronica con buona dose di ronzii cosmici, bassi rombanti che arrivano a far decollare la coscienza, disturbi di vario genere. Direi che sono una versione sfrontata e italica degli Emeralds, che riescono a tener alto il gonfalone dei synth analogici e della via mediterranea ai suoni ipnagogici. Sale poi sul palco Lorenzo Senni, con ciuffo sugli occhi, scatenando piogge di beat ripetitivi e metallici che mi fanno pensare a un matrimonio contronatura tra l'elettronica da ballare e la cold wave anni ottanta. Immersi in alienanti pulsazioni da film apocalittico e con la tentazione di battere il proverbiale piedino, si notano le prime facce perplesse dei fan degli Inquisition che sembran dire "ma che ci faccio qui?"

Vengono poi, appunto, gli dei del caos colombiani. Sono in due, con face-painting di prammatica. Black Metal duro e puro, crudissimo, con un lavoro spaventoso del batterista e la voce da ranocchio malvagio del cantante che troneggia sulla melma. Il suono è decisamente pessimo, ma questo rende ancora più interessante il tutto perché, depurato dalle sue tentazioni sinfoniche e amputato delle melodie infette, il Black Metal si riconnette alla propria origine. Dai primissimi Mayhem si risale al Bathory punkeggiante del primo album, si ritrovano i Motorhead e, sotto le facce imbiancate, si odono i gloriosi rombi hardcore. Buono sfoggio di corna e invocazioni a Satana; i fan pogano con moderazione e (perfezionisti come tutti i metallari) si lamentano per il suono, ma il capannone del Codalunga è caldo al punto giusto. Al punto giusto per cosa?
Ovviamente per gli headliner della serata (serata mica tanto, visto che siamo già quasi alle due di mattina ...).


Dopo gli Inquisition arrivano infatti i Wolf Eyes e, al di là delle preferenze per un genere o per l'altro, si ha la sensazione di vedere all'opera dei maestri indiscutibili. I tre del Michigan sono noti per alcune cose. Hanno fatto uscire un paio di dischi per la Sub Pop, hanno suonato con il jazzista di avanguardia Anthony Braxton, sono uno dei gruppi noise più famosi al mondo. Il che, tradotto, vuol dire che ci sono a sentirli non più di trenta o quaranta persone...

I Wolf Eyes sono in tre: John Olson è grosso e con pochi capelli, ha un giubbottino di jeans corto e faccia da ragazzone americano, al punto che si teme abbia disertato dalla base di Aviano per venire a far caciara da queste parti. Mike Connelly è scuro, sorridente, con l'aria un po' adrenalinica di certi personaggi alla Tarantino. Nate Young è uno spilungone barbuto e silenzioso, come si addice al tipico frontman carismatico. Sono stati seduti buoni buoni al banchetto del merchandise, si sono ogni tanto alzati per andare a sentire gli altri musicisti. Ora tocca a loro.

Attaccano. I ricordi son confusi, ma John Olson martella una specie di lungo bastone attrezzato a mò di basso moto-zappa, mentre con una mano armeggia su macchine che lanciano battiti ultraprofondi in grado di smuovere gli organi interni. Il tutto tra lancinanti sfrigolature elettriche, come se una gigantesca bistecca fosse messa su un barbecue e il tutto fosse amplificato. Con la variabile vagamente burroughsiana che la bistecca è, per qualche misteriosa ragione, viva. Dall'altra parte Mike Connelly stringe tra le braccia una chitarra e, liberato da qualsiasi necessità di dare un corpo melodico al tutto, si abbandona a orge di feedback e a potentissimi fendenti metallici, andando ogni tanto a girare manopole malvage direttamente connesse ai centri per la sordità. Nate Young, invece, urla nel microfono e dalla gola gli escono suoni che, effettati e filtrati, diventano strati abrasivi che grattano via la pelle. Anche lui di tanto in tanto ficca le dita in scatole elettriche cavandone fuori variazioni sul tema "rumore bianco e fischi nelle orecchie".
Il volume è assordante, ma quello che mi colpisce è che si tratta di una musica assolutamente nitida, fatta di strati che si separano e si mescolano, per staccarsi poi di nuovo. Esiste una geometria all'opera, in questo esercizio nell'esaperazione delle forme. E i Wolf Eyes, dal vivo ancora più che su disco, si propongono come l'incarnazione definitiva di un certo tipo di suono del Michigan: gli Stooges senza melodia, con tutti i rumori prodotti dai fratelli Asheton condensati e risparati fuori dagli amplificatori. Poco più di mezz'ora di musica, credo, con  l'impressione di trovarsi di fronte a un'evocazione di tutto quello che è (ed è stata) la musica estrema. Elettronica industriale, harsh noise, assalti death metal, attitudine hardcore, sibili psichedelici, avanguardismi no wave, trip sciamanici. Risalendo alla radice tribale del rock stesso. Tutto immerso nella forza solenne di un  rituale sonoro profano. Esco piuttosto sconvolto, perché, devo dire, non mi aspettavo tale potenza e tale presenza. Dentro di me si deposita l'idea di tornare a vederli in una delle altre serate...

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